“E cos’è che impararono gli allievi di Amalfitano? Impararono a
recitare a voce alta. Mandarono a memoria le due o tre poesie che più
amavano per ricordarle e recitarle nei momenti opportuni: funerali,
nozze, solitudini. Capirono che un libro era un labirinto e un deserto.
Che la cosa più importante del mondo
era leggere e viaggiare forse la stessa cosa, senza fermarsi mai. Che
una volta letti gli scrittori uscivano dall’anima delle pietre, che era
dove vivevano da morti, e si stabilivano nell’anima dei lettori, come in
una prigione morbida, ma che poi questa prigione si allargava o
scoppiava. Che ogni sistema di scrittura è un tradimento. Che la vera
poesia vive tra l’abisso e la sventura e che vicino a casa sua passa la
strada maestra dei gesti gratuiti, dell’eleganza degli occhi e della
sorte di Marcabruno. Che il principale insegnamento della letteratura
era il coraggio, un coraggio strano, come un pozzo di pietra in mezzo a
un paesaggio lacustre, un coraggio simile a un vortice e a uno specchio.
Che leggere non era più comodo che scrivere. Che leggendo si imparava a
dubitare e a ricordare. Che la memoria era l’amore.”
I dispiaceri del vero poliziotto, traduzione di Ilide Carmignani, Adelphi 2011.
Che iddio ti cerry!
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