Parlare mi costa fatica, e non c'è da stupirsi: durante la guerra non si parlava. Ogni sciagura ribadiva: cosa c'è da dire? E non c'era davvero niente da dire. Chi è stato nel ghetto, nel campo di concentramento e nei boschi ha conosciuto il silenzio sul proprio corpo. In guerra non si discute, non si acuiscono le divergenze di opinione: in guerra si coltivano l'ascolto e la discrezione. La fame di pane, la sete di acqua, la paura della morte rendono superflue le parole. Non ce n'è bisogno. Nel ghetto e nel campo di concentramento solo coloro che impazzivano parlavano, spiegavano e cercavano di convincere. Chi era sano di mente non parlava.
Il mio sospetto nei confronti delle parole è nato allora. Una scorrevole sequenza di parole mi insospettisce. Preferisco la balbuzie, nella quale sento la frizione, l'irrequietezza, lo sforzo di purificare le parole dalle scorie, la volontà di porgerti qualcosa d'interiore. Le frasi levigate, scorrevoli mi danno una sensazione di mancanza di pulizia, di ordine, che nasconde il vuoto.
Non era la voce a parlare, in tempo di guerra, ma il volto e le mani. Dal volto potevi comprendere se l'uomo che ti stava vicino era disposto ad aiutarti, o se stava macchinando contro di te. Le parole non aiutavano a capire: erano i sensi a trasmetterti l'informazione giusta. La fame ci riporta agli istinti, al linguaggio che precede le parole. La mano che ti ha porto un pezzo di pane o una ciotola d'acqua quand'eri ormai in ginocchio per la debolezza, quella mano non la dimenticherai mai più.
La malvagità, come la generosità, non ha bisogno di parole.
Le parole riemersero solo dopo la guerra.
Le parole non hanno la forza di fronteggiare le grandi catastrofi; sono povere, misere e mistificanti. Nemmeno le antiche preghiere hanno la forza di affrontare le disgrazie.
All'inizio degli anni Cinquanta, quando cominciai a scrivere, sulla guerra scorrevano già fiumi di parole.
A volte recintiamo di parole le grandi catastrofi per proteggerci da esse. Le prime parole che uscirono dalla mia penna erano un'invocazione disperata a ritrovare il silenzio che mi aveva circondato durante la guerra, e a restituirmelo. I miei ciechi sensi capivano che in quel silenzio è racchiusa la mia anima, e che se fossi riuscito a farla resuscitare avrei forse ritrovato le parole giuste.
Ho cominciato a scrivere zoppicando.
Durante la guerra ho visto la vita nella sua nudità, senza abbellimenti. Il bene e il male, il bello e il brutto mi si sono rivelati mescolati. Ciò non ha fatto di me, grazie al cielo, un moralista. Anzi, ho imparato a rispettare la debolezza e ad amarla: la debolezza è la nostra essenza e la nostra umanità. L'uomo che conosce la propria debolezza sa a volte superarla. Il moralista ignora le proprie debolezze e invece di indirizzare le proprie pretese verso se stesso, le indirizza verso il prossimo.
Aharon Appelfeld
Che iddio ti cerry!
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