E' mai sempre questa la scrittura, è l'informe incandescente che s'informa, il suo freddarsi, il trapassare stilla a stilla nel segno, suono, nel senso decretato, nella convenzione, nella liturgia della parola? E' canto, movimento, pàrodo e stàsimo per liberare pena gioia furia rimorso, mostrare nella forma acconcia, nella più bella la tempesta? E' malizia, compromesso, cedimento, riconciliazione con il mondo? Oh anima sfuggente, oscura, oh fondo tenebroso.
E' menzogna l'intelligibile, la forma, o verità ulteriore?
Ma prima è l'inespresso, l'ermetico assoluto, il poema mai scritto, il verso mai detto. E' il sibillino, il mùrmure del vento, frammento, oscuro logo, profezia dei recessi. E' la ritrazione, l'afasia, l'impetramento la poesia più vera, è il silenzio. O l'urlo disumano.
Il 21 gennaio di quest'anno è morto Vincenzo Consolo, siciliano di Milano. Le sue parole restano. Parole che invitano alla cura, a una scrittura attenta, generosa, sinfonia di sillabe e festa del suono che si fa senso.
"codesto tuo odio è cosa buona. Lavoreremo insieme, Marano. Ho saputo che sai scrivere. Faremo un giornale nostro in Tunisia, per gli esiliati, per i compagni in patria. Prepariamo così il momento dello sbarco nell'isola, del nuovo Vespro..." E improvviso, esaltandosi, cambiando tono, "Viva l'Anarchia! Pensiero e dinamite!" fece urlando quasi. "Noi saremo come la Morte ghignante del Trionfo, la bayadère sans nez sul pallido cavallo che irrompe nel giardino della danza, torno alla fontana dei piaceri, dell'incanto, infreccia papi vescovi abati, re e principi, dame e cortigiani, paggi e scudieri, infreccia cadaveri disfatti, fermenti di pesti, vermi, covi d'infezioni... C'est la Mort qui console, hélas! et qui fait vivre... Infrecceremo Chiachieppe il nano, il bastardo, ogni Savoia, ogni rampollo dell'infame stirpe, il Ganellone truce di Predappio, i suoi sgherri, ogni servo marcio, serpente feudale di Sicilia, plutocrate del nord, tutto lo sbirrume, il borghesume, i vassalli idioti dello stato, i sozzi bottegai, i bacchettoni, gli ignoranti... Stermineremo tutti, presto, libereremo l'Italia dal potere lordo di sangue, fango...
"Ruggite o miserie dai petti ventenni
Squillate campane dei Vespri solenni
E' questa la grande riscossa finale
Del bene e del male la pugna fatal...
Tieni, leggi!" disse mettendo in mano a Petro un libro. "Ci ritroviamo domattina per lo sbarco."
Petro costernato aveva visto ancora in quel vecchio la bestia indomita. La bestia dentro l'uomo che si scatena e insorge, trascina nel marasma. La bestia trionfante di quel tremendo tempo, della storia, che partorisce orrori, sofferenze.
Doveva sfuggire a Schicchi, a ogni altro. Nella nuova terra sarebbe stato solo come un emigrante, in cerca di lavoro, casa, di rispetto. Solo ad aspettare con pazienza che passasse la bufera.
Si rifugiò al coperto, dentro il salone ov'erano ammassati arabi, emigranti, arresi al sonno, russanti, in un tanfo spesso. Si stese in mezzo e ritrovò calore, agio per la notte.
Fu svegliato dal fischio, dal trambusto sulla nave. Corse alla murata e gli apparì, nei vapori sul gran golfo, sulla laguna, il castello bruno, le mura della Kasbah, le case bianche e azzurre, le cupole i minareti, le palme i pini le acacie, i gabbiani i fenicotteri, e i bastimenti i velieri dentro il porto.
Cominciava il giorno, il primo per Petro in Tunisia.
Si ritrovò il libro dell'anarchico, aprì le mani e lo lasciò cadere in mare.
Pensò al suo quaderno. Pensò che ritrovata calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe raccontato, sciolto il grumo dentro.
Avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore.